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Critics

"C'era una volta in America" di Emma Gravagnuolo.

Che l’arte contemporanea ci arrivi sempre più attraverso media diversi, è cosa nota da tempo. Sperimentazione, comunicazione, interscambio, diventano molto spesso un valore aggiunto e poco conta se il linguaggio prescelto sia quello pittorico o quello fotografico, che si serva delle tecnologie più avanzate o resti ancorato alla tradizione.....

Le relazioni dialettiche fra mezzi linguistici favoriscono un dialogo tra componenti diverse unite in uno stesso processo: creativo prima, visivo poi. L’approccio formale è necessario, fondamentale, in relazione a un sistema che di fatto è sempre più in movimento, in rapida trasformazione e ha bisogno di essere interpretato in chiave nuova, originale, autonoma. Gran parte della scena contemporanea, sollecitata anche dalle possibilità offerte dai mezzi tecnologici, torna oggi a rivolgere la sua attenzione al reale, non interpretato ricercandone la dimensione naturale, quanto piuttosto quella di una visione modificata, filtrata da immagini trasmesse dai media spesso elaborati con l’ausilio di linguaggi differenti. Non stupisce allora che un nutrito gruppo di artisti scelga di attingere ai territori dove la creatività è parte integrante, dove ci sia velocità di pensiero, vivacità d’intuizione. Tra questi, alcuni decidono di confrontarsi con l’immagine cinematografica, di rendere un loro personale omaggio a quelle pellicole che per aspetti diversi ne hanno di volta in volta suggestionato la ricerca. Nel caso di Luca Zampetti, però, il discorso è vero solo in parte. Il taglio cinematografico è sempre stato una componente fondamentale nei suoi dipinti, così come i suoi protagonisti sembravano uscire da un film di Paul Thomas Anderson, Robert Altman o Sam Mendes. Ma per questa serie, Zampetti si è spinto oltre, dando vita a un personale tributo a Sergio Leone, in particolare al suo notissimo film-testamento: quel C’era una volta in America a cui il celebre regista pensò per oltre dieci anni. La storia, ambientata a New York dai primi anni Venti alla fine dei Sessanta racconta dell’ascesa e del declino di due gangster ebrei interpretati da Robert De Niro e James Woods. Dalle prime imprese nel Lower East Side agli anni del proibizionismo, il film è una saga per immagini di storia americana ricordata attraverso intrecci, vertiginosi flashback e intriganti salti nel tempo, quasi fosse un romanzo di Proust. Una gangster story come un labirinto, dalle componenti strutturali fatte di storia, memoria, violenza. Il perchè di questa scelta? Lo stesso Zampetti spiega il motivo: “la filmografia di Leone è stata tra quelle che più ha influenzato il mio lavoro, sia in termini di taglio dell’immagine che d’impianto formale, per ritmo e metodo di racconto. Non solo, C’era una volta in America contiene e riassume queste caratteristiche e mi è servito per raccontare la Grande Mela nei primi anni del secolo scorso, non attraverso immagini d’epoca ma tramite il filtro di un’opera cinematografica”. Il passaggio per riportare su tavola una scelta incisiva di queste scene avviene attraverso un procedimento complesso. Il primo passo consiste nella selezione delle inquadrature. Compito arduo, se si pensa che la durata della pellicola è di oltre tre ore e mezza. Zampetti ha lavorato per giorni passando in rassegna ogni singolo frame allo scopo d’individuarne i più efficaci. In seguito li elabora, monta e unisce ad altri così che ogni opera sia in pratica il risultato della sintesi e della fusione di più scene insieme. Il singolo dipinto riflette non solo la propria durata temporale, ma anche il relativo racconto lungo diversi minuti di narrazione cinematografica. Trattandosi di un film dove sono state studiate, lavorate e marcate le caratteristiche psicologiche degli attori, anche nel relativo “trasferimento” Zampetti non rinuncia all’indagine interiore dei soggetti. In passato, del resto, l’artista così naturalmente legato alla figura umana, aveva portato in scena un’umanità comune: dal poliziotto alla turista per strada, dal manager alle donne in carriera, concentrandosi poi sull’approfondimento dell’universo femminile patinato e glamour, filtrato attraverso moda e pubblicità. Oggi l’uomo è ancora bersaglio delle sue immagini, ma messe da parte vicende quotidiane o contemporanee, l’artista compie un salto indietro nel tempo. Allarga il campo d’azione, rappresenta scene ravvicinate, primissimi piani per arrivare fino a campi lunghi. Spiazza l’osservatore, lo costringe a riportare alla memoria situazioni, volti, luoghi e nel sollecitare la ricerca di ogni minimo dettaglio dà vita a una sorta di de-realtà, filtrata e originata dalla finzione cinematografica. Non stupisce quindi che i suoi protagonisti-attori siano caratterizzati da una gestualità esagerata e plateale, costruiti da un segno spigoloso, di marca così efficacemente espressionista, proprio quel segno che possiede, intrinseca, una vocazione scultorea nella forza della presenza e nella capacità di delineazione dei soggetti. Intorno a questi personaggi una New York riportata nei dettagli di edifici, strade, interni resi con l’attenzione al particolare, all’equilibrio estetico e strutturale della composizione. Immerse simultaneamente in un’atmosfera in bilico tra finzione e realtà, le opere di Zampetti si mostrano come la trama per immagini di una fiaba che si muove attraverso montaggi in sequenza, semplici associazioni di personaggi, situazioni e paesaggi, sollecitando in chi le osserva un gioco tra la libera, inevitabile, interpretazione della scena e il finale già stabilito da Leone. da “C’era una volta in America - Tributo a Sergio Leone”, di Emma Gravagnuolo, Livorno 2004

 

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